Interviste – fotografia, performance, teatro.
Quando i linguaggi artistici convivono.
Alla scoperta di Davide Bordogna
Intervista di Piera Cavalieri
Oggi sono molteplici gli esempi in cui più linguaggi artistici convivono. La tua serie “Luminanda” ne è un esempio molto riuscito, una ricerca sul rapporto tra corpo, performance, teatro e fotografia. In questa ricchezza di combinazioni hai trovato il materiale per costruire il portfolio selezionato nel concorso “Migrazioni: una molteplicità di esperienze.”Ci puoi raccontare come è nata l’idea e che tipo di lavoro hai fatto per immedesimarti e restituirci questa idea della comunicazione corporea ?
Ho conosciuto l’associazione Luminanda un anno fa, assistendo al saggio teatrale conclusivo della stagione di laboratorio. E’ stata un’esperienza molto intensa che mi ha colpito ed emozionato profondamente.Ho sentito una grande energia librarsi dai giovani attori, energia che ha fatto nascere in me la curiosità di conoscere meglio l’attività dell’associazione.Ho proposto a Veronica, che dirige il laboratorio di teatro, di permettermi di seguire il successivo anno di incontri, raccontando con le mie fotografie il loro percorso e la loro attività.Fortunatamente Veronica mi ha accolto all’interno del gruppo.Dapprima il mio approccio è stato piuttosto distaccato, impersonale: stavo semplicemente realizzando un reportage di quanto accadeva durante gli incontri. Ho ben presto capito che questo atteggiamento non mi avrebbe permesso di ottenere il racconto che avevo in mente, e che per fare ciò che desideravo era necessario “entrare dentro” quanto accadeva. L’energia, che dapprima mi aveva incuriosito, mi aveva ormai contagiato, ed assecondarla e farmi coinvolgere è stata la chiave della svolta che ha poi preso il lavoro fotografico.Ho cominciato quindi a scattare entrando in scena con i ragazzi, che nel frattempo si erano anche abituati alla mia presenza.Questo nuovo punto di vista, e questo nuovo atteggiamento, mi ha permesso di realizzare più di un semplice racconto didascalico di un percorso teatrale. Mi ha regalato l’opportunità di cogliere, vivendoli, momenti di condivisione, di intimità, di vicinanza ma anche solitudine, attimi di grande intensità alternati ad esplosioni di allegra leggerezza.E’ stata un’avventura che mi ha donato molto sul piano umano, spero con le mie fotografie di aver in parte restituito il regalo ricevuto.
Osservando “Luminanda” l’impressione è di una sorta di esperienza collettiva, di condivisione ed empatia, di cui rendi partecipe lo spettatore. Era quello che cercavi quando hai iniziato il lavoro o è venuto fuori durante?
Il laboratorio di Luminanda è soprattutto un’esperienza collettiva. Fare teatro, in questa accezione, con questa modalità e con la finalità umana e sociale che l’associazione si propone, non è funzionale alla sola messa di scena di un soggetto, anzi. La rappresentazione davanti ad un pubblico è la conclusione di un cammino della durata di un inverno, che coinvolge corpi e anime, durante il quale il tema stesso dello spettacolo nasce dai ragazzi che vi partecipano. Ogni volta essi portano un po’ della propria esperienza personale, dei propri sentimenti, dei propri sogni ed aspirazioni, della propria fantasia, allegria e nostalgia. Ad ogni incontro essi stessi creano la storia regalando qualcosa di sé, qualcosa che racconta di loro.E’ così che la narrazione, messa poi in scena, nasce, si sviluppa, cambia repentinamente forma e contenuto, si stravolge infinite volte, fino a trovare la forma definitiva.Tutto questo era quello che avrei sperato di trovare quando ho iniziato il mio percorso con Veronica ed i ragazzi. Fortunatamente le mie aspettative sono state abbondantemente superate.
Abbandoniamo “Luminanda” e passiamo ad altri lavori. È comunque evidente il tuo interesse per il paesaggio umano, che cogli in movimento, in quegli attimi che evocano possibili storie per ogni soggetto.
E poi ci sono i ritratti fatti con una eccellente cura estetica. Puoi raccontare come procedi, visto che ogni buon ritratto richiede una certa capacità di empatia?
Da un anno a questa parte, l’essere umano è diventato centrale nella mia fotografia. Sono le persone e le storie che portano con sé, che attirano la mia attenzione, con le loro espressioni, i gesti, le azioni, il loro rapporto con lo spazio.Il ritratto per me è la possibilità di entrare in contatto con le persone e cercare di coglierne un’espressione, un istante che racconti un po’ di loro.È fondamentale che i soggetti nel mio set si sentano il più possibile a proprio agio, dimentichino, per quanto sia possibile, di essere davanti ad una macchina fotografica.Per fare questo cerco di stabilire un contatto umano, cerco di farmi raccontare un po’ di loro mentre io racconto di me, creando così un momento di fiducia e condivisione.È quando si crea questa “zona franca” che il soggetto lascia cadere un po’ le proprie difese, dandomi la possibilità di cogliere, o almeno provare a farlo, qualcosa che arriva in superficie dal profondo.