Quando la fotografia racconta il lavoro attraverso il ritmo della natura, della terra e dei suoi prodotti.
Alla scoperta di Francesco Zoppi
Intervista di Piera Cavalieri
Il lavoro, i prodotti della terra, l’attenzione alla fatica di chi se ne occupa con generosità e coraggio, e una particolare sensibilità verso gli aspetti sociali come l’immigrazione e l’integrazione attraverso il lavoro stesso, sono i temi ricorrenti nei tuoi progetti. Ci puoi raccontare come è iniziato il tuo percorso, da “De la vache à la fontine” ad oggi con “Bianchetta genovese”?
– Il mio percorso fotografico si puo’ dire che sia iniziato nel 1988 quando all’età di 11 anni ho seguito un corso di fotografia tenuto dalla fotografa Genovese Patrizia Lanna. All’età di 17 anni facevo le stagioni in Valle d’Aosta prestando servizio presso uno studio fotografico chiamato Artemania realizzando servizi sportivi e ritratti per un periodo di circa 4 anni. L’arrivo del digitale in fotografia mi ha fatto allontanare un po’ dalla fotografia dedicandomi ad altri percosi e studi salvo poi riprende in maniera più costante e decisa. Così nel 2010 sviluppando un interesse sempre maggiore per il reportage ho iniziato un progetto intitolato De la Vache a la Fontine in cui si vuole raccontare il lavoro necessario per produrre il famoso formaggio negli alpeggi Valdostani. La fontina DOP viene prodotta tramandando gesti antichi da padre a figlio e oggi come allora i taciturni e solitari pastori mostrano alle nuove leve, per lo più immigrati marocchini, questi gesti riscrivendo la storia cambiandola in una genuina società multiculturale che crea una ricchezza per l’uomo e il suo territorio.
Bianchetta Genovese è un progetto fotografico che racconta il lavoro necessario per realizzare il vino da cui trae il suo stesso nome: un vino molto amato nel territorio genovese, ma ormai di produzione limitatissima, proveniente da un vitigno coltivato in alcune zone della Val Polcevera (una delle principali vallate del territorio genovese) e del Golfo del Tigullio. Proprio in Val Polcevera, e più precisamente a Coronata, una collina immediatamente a ridosso del quartiere genovese di Cornigliano, i giovani migranti richiedenti asilo – per lo più africani – del Coronata Campus ospitato negli spazi dell’Ex Ospedale San Raffaele hanno recuperato piante di questo vitigno ormai abbandonate da molti anni e le hanno rese nuovamente produttive, grazie all’insegnamento di gesti antichi fornito loro da alcuni di quei pochissimi produttori di Bianchetta rimasti sul territorio. Il recupero e la valorizzazione di una parte del nostro territorio e dei suoi prodotti sono passati attraverso il lavoro, l’impegno e la fatica di alcuni ragazzi che hanno avuto così l’opportunità di acquisire conoscenze e pratiche agricole che possono riutilizzare per costruirsi un’attività lavorativa o un ruolo professionale. Gli spazi che prima sono scampati all’industrializzazione per poi essere abbandonati e degradati, sono diventati, per alcuni, l’opportunità per provare a costruirsi le basi di un futuro lavorativo e di vita. In altre parole un possibile strumento di integrazione. Oggi questi spazi vengono restituiti alla vista del quartiere, dopo mesi di lavoro, curati e produttivi. Nonostante la maggior parte di loro, per ragioni religiose, non possa bere vino e quindi quasi certamente non conosca neppure la produzione vinicola, comprende ugualmente il valore di una così antica tradizione produttiva del paese che li ospita e segue con entusiasmo le attività imposte dai ritmi dettati dalla natura: il taglio delle foglie e la legatura dei rami, che permettono di meglio esporre i grappoli ai raggi del sole, intervallati da un’alternanza di trattamenti con verderame e zolfo per evitare la formazione di muffe e parassiti. Il culmine del lavoro è stato naturalmente la fase della vendemmia che si conclude, da sempre e come sempre, con una festa e qualche foto ricordo.
In mezzo viaggi ed esperienze come quelli realizzati per il progetto sulla nocciola ligure libro edito da Sagep e The Codfish tale edito da Tormena in cui si raccontano i passaggi della catena di produzione del Merluzzo tra le Isole Lofoten e la Liguria.
Questo tuo viaggio alla scoperta delle pratiche agricole, di più antica tradizione, ti ha portato a lavorare nel mondo del cibo e a fare anche una sorta di mappatura della ristorazione attenta alla qualità. Curioso ed interessante è anche la tua indagine sui disturbi alimentari, quasi come se fosse il risvolto della medaglia di un paese dove si parla troppo di cibo e dove i media e social network ci sottopongono ad abbuffate quotidiane. Come è nata questa idea?
– Nel tempo ho sentito il desiderio di conoscere meglio il mondo del cibo,indagando i suoi numerosi aspetti, a partire da quello molto delicato dei disturbi alimentari. Nasce così il progetto “Mirror of Soul”, che nel 2015 viene esposto al Museo di Palazzo Rosso all’interno della rassegna “Intimi Nutrimenti”; nel 2016 la foto “Anoressia” viene selezionata come finalista al Pink Lady Food Photographer of the Year ed esposta alla Mall Galleries di Londra e, successivamente, al centro di Fotografia 6×6 a Limassolo, Cipro. In questo progetto il cibo viene utilizzato come rappresentazione del corpo mentre il disturbo alimentare viene riflesso attraverso uno specchio. Da qui nasce l’idea di Anoressia: la visione allo specchio di un frutto pieno e maturo che nella realtà è solo un torsolo di mela. Ma anche quella di Obesità: una zucchina tonda le cui forme sidiscostano dai modelli estetici diffusi e generano un senso di insicurezza interiore. Infine di Bulimia in cui “il buco nella pancia” dell’avocado è come un pozzo senza fondo sempre pieno ma nello stesso tempo subito svuotato a causa dell’insorgere del senso di colpa.
Moschee aperte è un altro lavoro di successo che mostra ancora una volta il filo conduttore dei tuoi progetti. Ce ne parli in breve?
– Il progetto si chiama L’ Islam all’ombra della lanterna. Uno sguardo sulle piccole e numerose moschee disseminate tra i vicoli della città di Genova…Piccoli spazi, spesso ricavati da fondi, messi a disposizione di chi desidera entrare in contatto con la comunità musulmana…Non solo un luogo di preghiera ma un polo di aggregazione dove chiunque puo’ trovare una parola di conforto, un pasto caldo oppure semplicemente bersi un bicchiere di the .. Si è a lungo parlato della realizzazione di una grande Moschea senza mai giungere ad un accordo vero e proprio. Ho preso parte al progetto Moschee aperte promosso dal Secolo XIX in particolare organizzato dal giornalista Pablo Calzeroni.