Archive | Interviste

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Interviste – la natura, la terra, i suoi prodotti.

Quando la fotografia racconta il lavoro attraverso il ritmo della natura, della terra e dei suoi prodotti.

Alla scoperta di Francesco Zoppi

Intervista di Piera Cavalieri

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Il lavoro, i prodotti della terra, l’attenzione alla fatica di chi se ne occupa con generosità e coraggio, e una particolare sensibilità verso gli aspetti sociali  come l’immigrazione e l’integrazione attraverso il lavoro stesso, sono i temi ricorrenti nei tuoi progetti. Ci puoi raccontare come è iniziato il tuo percorso, da “De la vache à la fontine” ad oggi con “Bianchetta genovese”?

– Il mio percorso fotografico si puo’ dire che sia iniziato nel 1988 quando all’età di 11 anni ho seguito  un corso di fotografia tenuto dalla fotografa Genovese Patrizia Lanna. All’età di 17 anni facevo le stagioni in Valle d’Aosta prestando servizio presso uno studio fotografico chiamato Artemania realizzando servizi sportivi e ritratti per un periodo di circa 4 anni. L’arrivo del digitale in fotografia mi ha fatto allontanare un po’ dalla fotografia dedicandomi ad altri percosi e studi salvo poi riprende in maniera più costante e decisa. Così nel 2010 sviluppando un interesse sempre maggiore per il reportage  ho iniziato un progetto intitolato De la Vache a la Fontine in cui si vuole raccontare il lavoro necessario per produrre il famoso formaggio negli alpeggi Valdostani. La fontina DOP viene prodotta tramandando gesti antichi da padre a figlio e oggi come allora i taciturni e solitari pastori mostrano alle nuove leve, per lo più immigrati marocchini, questi gesti riscrivendo la storia cambiandola in una genuina società multiculturale che crea una ricchezza per l’uomo e il suo territorio.

Bianchetta Genovese è un progetto fotografico che racconta il lavoro necessario per realizzare il vino da cui trae il suo stesso nome: un vino molto amato nel territorio genovese, ma ormai di produzione limitatissima, proveniente da un vitigno coltivato in alcune zone della Val Polcevera (una delle principali vallate del territorio genovese) e del Golfo del Tigullio. Proprio in Val Polcevera, e più precisamente a Coronata, una collina immediatamente a ridosso del quartiere genovese di Cornigliano, i giovani migranti richiedenti asilo – per lo più africani – del Coronata Campus ospitato negli spazi dell’Ex Ospedale San Raffaele hanno recuperato piante di questo vitigno ormai abbandonate da molti anni e le hanno rese nuovamente produttive, grazie all’insegnamento di gesti antichi fornito loro da alcuni di quei pochissimi produttori di Bianchetta rimasti sul territorio. Il recupero e la valorizzazione di una parte del nostro territorio e dei suoi prodotti sono passati attraverso il lavoro, l’impegno e la fatica di alcuni ragazzi che hanno avuto così l’opportunità di acquisire conoscenze e pratiche agricole che possono riutilizzare per costruirsi un’attività lavorativa o un ruolo professionale. Gli spazi che prima sono scampati all’industrializzazione per poi essere abbandonati e degradati, sono diventati, per alcuni, l’opportunità per provare a costruirsi le basi di un futuro lavorativo e di vita. In altre parole un possibile strumento di integrazione. Oggi questi spazi vengono restituiti alla vista del quartiere, dopo mesi di lavoro, curati e produttivi. Nonostante la maggior parte di loro, per ragioni religiose, non possa bere vino e quindi quasi certamente non conosca neppure la produzione vinicola, comprende ugualmente il valore di una così antica tradizione produttiva del paese che li ospita e segue con entusiasmo le attività imposte dai ritmi dettati dalla natura: il taglio delle foglie e la legatura dei rami, che permettono di meglio esporre i grappoli ai raggi del sole, intervallati da un’alternanza di trattamenti con verderame e zolfo per evitare la formazione di muffe e parassiti. Il culmine del lavoro è stato naturalmente la fase della vendemmia che si conclude, da sempre e come sempre, con una festa e qualche foto ricordo.

In mezzo viaggi ed esperienze come quelli realizzati per il progetto sulla nocciola ligure libro edito da Sagep e The Codfish tale edito da Tormena in cui si raccontano i passaggi della catena di produzione del Merluzzo tra le Isole Lofoten e la Liguria.

 

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Questo tuo viaggio alla scoperta delle pratiche agricole, di più antica tradizione, ti ha portato a lavorare nel mondo del cibo e a fare anche una sorta di mappatura della ristorazione attenta alla qualità. Curioso ed interessante è anche la tua indagine sui disturbi alimentari, quasi come se fosse il risvolto della medaglia di un paese dove si parla troppo di cibo e dove i media e social network ci sottopongono ad abbuffate quotidiane. Come è nata questa idea? 

– Nel tempo ho sentito  il desiderio di conoscere meglio il mondo del cibo,indagando i suoi numerosi aspetti, a partire da quello molto delicato dei disturbi alimentari. Nasce così il progetto “Mirror of Soul”, che nel 2015 viene esposto al Museo di Palazzo Rosso all’interno della rassegna “Intimi Nutrimenti”; nel 2016 la foto “Anoressia” viene selezionata come finalista al Pink Lady Food Photographer of the Year ed esposta alla Mall Galleries di Londra e, successivamente, al centro di Fotografia 6×6 a Limassolo, Cipro. In questo progetto il cibo viene utilizzato come rappresentazione del corpo mentre il disturbo alimentare viene riflesso attraverso uno specchio.  Da qui nasce l’idea di Anoressia: la visione allo specchio di un frutto pieno e maturo che nella realtà è solo un torsolo di mela. Ma anche quella di Obesità: una zucchina tonda le cui forme sidiscostano dai modelli estetici diffusi e generano un senso di insicurezza interiore. Infine di Bulimia in cui “il buco nella pancia” dell’avocado è come un pozzo senza fondo sempre pieno ma nello stesso tempo subito svuotato a causa dell’insorgere del senso di colpa.

 

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Moschee aperte è un altro lavoro di successo che mostra ancora una volta il filo conduttore dei tuoi progetti. Ce ne parli in breve?

– Il progetto si chiama L’ Islam all’ombra della lanterna. Uno sguardo sulle piccole e numerose moschee disseminate tra i vicoli della città di Genova…Piccoli spazi, spesso ricavati da fondi, messi a disposizione di chi desidera entrare in contatto con la comunità musulmana…Non solo un luogo di preghiera ma un polo di aggregazione dove chiunque puo’ trovare una parola di conforto, un pasto caldo oppure semplicemente bersi un bicchiere di the .. Si è a lungo parlato della realizzazione di una grande Moschea senza mai giungere ad un accordo vero e proprio. Ho preso parte al progetto Moschee aperte promosso dal Secolo XIX in particolare organizzato dal giornalista Pablo Calzeroni.

 

 

Interviste – fotografia, performance, teatro.

Quando i linguaggi artistici convivono.

Alla scoperta di Davide Bordogna

Intervista di Piera Cavalieri

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Oggi sono molteplici gli esempi in cui più linguaggi artistici  convivono. La tua serie “Luminanda” ne è un esempio molto riuscito, una  ricerca sul rapporto tra corpo, performance, teatro e fotografia. In questa ricchezza di combinazioni hai trovato il materiale per costruire il portfolio selezionato nel concorso “Migrazioni: una molteplicità di esperienze.”Ci puoi raccontare come è nata l’idea e che tipo di lavoro hai fatto per immedesimarti e restituirci questa idea della comunicazione corporea ?

 Ho conosciuto l’associazione Luminanda un anno fa, assistendo al saggio teatrale conclusivo della stagione di laboratorio. E’ stata un’esperienza molto intensa che mi ha colpito ed emozionato profondamente.Ho sentito una grande energia librarsi dai giovani attori, energia che ha fatto nascere in me la curiosità di conoscere meglio l’attività dell’associazione.Ho proposto a Veronica, che dirige il laboratorio di teatro, di permettermi di seguire il successivo anno di incontri, raccontando con le mie fotografie il loro percorso e la loro attività.Fortunatamente Veronica mi ha accolto all’interno del gruppo.Dapprima il mio approccio è stato piuttosto distaccato, impersonale: stavo semplicemente realizzando un reportage di quanto accadeva durante gli incontri. Ho ben presto capito che questo atteggiamento non mi avrebbe permesso di ottenere il racconto che avevo in mente, e che per fare ciò che desideravo era necessario “entrare dentro” quanto accadeva. L’energia, che dapprima mi aveva incuriosito, mi aveva ormai contagiato, ed assecondarla e farmi coinvolgere è stata la chiave della svolta che ha poi preso il lavoro fotografico.Ho cominciato quindi a scattare entrando in scena con i ragazzi, che nel frattempo si erano anche abituati alla mia presenza.Questo nuovo punto di vista, e questo nuovo atteggiamento, mi ha permesso di realizzare più di un semplice racconto didascalico di un percorso teatrale. Mi ha regalato l’opportunità di cogliere, vivendoli, momenti di condivisione, di intimità, di vicinanza ma anche solitudine, attimi di grande intensità alternati ad esplosioni di allegra leggerezza.E’ stata un’avventura che mi ha donato molto sul piano umano, spero con le mie fotografie di aver in parte restituito il regalo ricevuto.

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Osservando “Luminanda” l’impressione è di una sorta di esperienza collettiva, di condivisione ed empatia, di cui rendi partecipe lo spettatore. Era quello che cercavi quando hai iniziato il lavoro o è venuto fuori durante?

 Il laboratorio di Luminanda è soprattutto un’esperienza collettiva. Fare teatro, in questa accezione, con questa modalità e con la finalità umana e sociale che l’associazione si propone, non è funzionale alla sola messa di scena di un soggetto, anzi. La rappresentazione davanti ad un pubblico è la conclusione di un cammino della durata di un inverno, che coinvolge corpi e anime, durante il quale il tema stesso dello spettacolo nasce dai ragazzi che vi partecipano. Ogni volta essi portano un po’ della propria esperienza personale, dei propri sentimenti, dei propri sogni ed aspirazioni, della propria fantasia, allegria e nostalgia. Ad ogni incontro essi stessi creano la storia regalando qualcosa di sé, qualcosa che racconta di loro.E’ così che la narrazione, messa poi in scena, nasce, si sviluppa, cambia repentinamente forma e contenuto, si stravolge infinite volte, fino a trovare la forma definitiva.Tutto questo era quello che avrei sperato di trovare quando ho iniziato il mio percorso con Veronica ed i ragazzi. Fortunatamente le mie aspettative sono state abbondantemente superate.

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Abbandoniamo “Luminanda” e passiamo ad altri lavori.  È  comunque evidente il tuo interesse per il paesaggio umano, che cogli in movimento, in quegli attimi che evocano possibili storie per ogni soggetto.

E poi ci sono i ritratti fatti con una eccellente cura estetica. Puoi raccontare come procedi, visto che ogni buon ritratto richiede una certa capacità di empatia?

Da un anno a questa parte, l’essere umano è diventato centrale nella mia fotografia. Sono le persone e le storie che portano con sé, che attirano la mia attenzione, con le loro espressioni, i gesti, le azioni, il loro rapporto con lo spazio.Il ritratto per me è la possibilità di entrare in contatto con le persone e cercare di coglierne un’espressione, un istante che racconti un po’ di loro.È fondamentale che i soggetti nel mio set si sentano il più possibile a proprio agio, dimentichino, per quanto sia possibile, di essere davanti ad una macchina fotografica.Per fare questo cerco di stabilire un contatto umano, cerco di farmi raccontare un po’ di loro mentre io racconto di me, creando così un momento di fiducia e condivisione.È quando si crea questa “zona franca” che il soggetto lascia cadere un po’ le proprie difese, dandomi la possibilità di cogliere, o almeno provare a farlo, qualcosa che arriva in superficie dal profondo.

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Interviste – come nascono le idee e le poetiche.

Quando la finzione racconta la realtà.

Alla scoperta di Nicola Perfetto

Intervista di Piera Cavalieri

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©Nicola Perfetto,“Il fango, la luce, la memoria“

 

“Il mondo della non violenza”,il portfolio selezionato nel concorso Migrazioni:una molteplicità di esperienze, èun mondo in cui la diversità è un valore fondante. Alla foce del Volturno, il mare sputa quello che noi con noncuranza  abbandoniamo. Qualche tempo fa, sulla suggestione delle cronache drammatiche, che ci mettevano sotto gli occhi che a perdere la vita sono anche i bambini, in quei modi tragici che la riva del mare ci ha costretti a guardare , Nicola Perfetto ha utilizzato quei detriti. Ha così iniziato a costruire i suoi personaggi e quelle messe in scena dove, la finzione arriva al vero ancora più della documentazione.

Nel tuo “Il mondo della non violenza”, crei una magia, un gioco tra realtà e finzione, o meglio tra realtà e invenzione e riesci a raccontare il vero del nostro tempo in modo poetico. 

 Colpisce il tuo sguardo inedito che mette a fuoco un tema drammatico e ripetutamente fotografato tanto da scivolarci, spesso davanti agli occhi, senza il sobbalzo necessario.

Hai voglia di raccontare a cosa ti sei ispirato per la prima immagine della serie e se hai seguito un’idea per tutta l’opera o se ogni immagine è venuta dopo aver creato la prima?

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©Nicola Perfetto, “Il mondo della non violenza”

“Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere” Jorge Luis Borges.Fu ad aprile del 2015, portai la mia inquietudine al cospetto del mare per trovare un po’ di conforto, camminavo sul bagnasciuga, raccolsi un osso di seppia, era bello di un biancore puro, pensai alla morte del mollusco; mi attrassero i detriti, gli scarti dell’uomo, mi fecero anche loro pietà. Pensai al bimbo spiaggiato senza pietà.Fu allora che unii l’osso di seppia ad un pezzo di polistirolo e fu la testa, mi piacque pensare così alla diversità che rende la vita attraente e degna di essere vissuta ed allora, pensando ai migranti, feci il padre, poi il figlio e infine la madre, li misi nel deserto e li fotografai. Mi piacque molto. Continuai con le opere che conosci.

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©Nicola Perfetto, “Il mondo della non violenza”

Su facebook hai pubblicato alcune foto dove ogni personaggio , sempre della stessa serie, ha un nome, Yasmin e Karim, Amir, Serafino. Ti sei ispirato a persone reali?

I nomi sono di fantasia ma veri della cultura araba, Serafino era un nome simpatico e l’usai. Le pubblicazioni su fb recavano di pensieri di vita vissuta senza violenza, che volevano far riflettere su quanto fosse appagante vivere una vita semplice all’insegna dell’amore totale, rivelatore della meravigliosa vita.

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©Nicola Perfetto,“Il fango, la luce, la memoria“

Spesso, su facebook, accompagni le tue foto a poesie di grandi poeti. L’ispirazione ti arriva dalla poesia o dopo la creazione dell’immagine cerchi la poesia che la può impreziosire o semplicemente affiancare?

 La poesia mi accompagna dall’adolescenza da quando mi accorsi del mistero della vita: c’è una forza inspiegabile che invita a vivere ed un’altra che mortifica quell’invito, è da questo contrasto che nasce la poesia.

Ho sempre avuto timore delle persone sicure di sé. I miei amici sono stati tutti senza certezze, li ho amati, molti erano squattrinato, i miei stipendi li abbiamo spesi insieme.

Parto dall’immagine e cerco complicità nella poesia.

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©Nicola Perfetto,“Il fango, la luce, la memoria“

“Il fango, la luce, la memoria “è un lavoro molto delicato di atmosfere sospese, di materie naturali, minime, di tracce di memoria. Puoi raccontare come è nato?

 In punta di piede ho percorso un lungo viaggio in territori non estesi e “usando la lente d’ingrandimento” mi sono imbattuto in mille occasioni irripetibili che ho documentato con la fotografia. Tutto nella perfetta solitudine dello scatto.

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©Nicola Perfetto,“Il fango, la luce, la memoria“

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©Nicola Perfetto,“Il fango, la luce, la memoria“

INTERVISTA A GIULIANA TRAVERSO – Una questione di carattere – di Piera Cavalieri

Non ho simpatia per gli intervistatori, ma accetto perché sei stata una mia allieva. Gli intervistatori mi fanno sempre le stesse domande, non me le fare anche tu! Ricordo, e mi viene da ridere a ripensarci, quando in TV, un noto giornalista, un bell’uomo, alto e distinto mi intervistò…iniziò così: “Lei è la grande, famosa, importante…- si intuiva che non ricordava neanche il mio nome – finalmente ispirato dal suo angelo protettore – “Giuliana Traverso la famosa scrittrice!”

“Grazie! E’ la prima volta che sento dire scrittrice a una fotografa, non mi era mai successo! Ho sempre sostenuto che la fotografia sia uguale allo scrivere…”.

Bene, ora iniziamo e ti prego non con le solite domande.

Parliamo di una cosa che tutti sanno e cioè che sei una grande ritrattista ma, pochi, sanno che non sei fisionomista. Mi sembra interessante capire come sia possibile conciliare questo aspetto con la capacità di ritrarre le persone in modo così intenso e azzeccato.

Ho sempre pensato che fosse un problema ma mi sentivo molto sicura e l’ho sempre superato. E’ come se avessi una mia disciplina, che mi ha forgiato il carattere e che mi impone una fiduciosa sicurezza nell’affrontare il mio lavoro o quando devo parlare in pubblico.

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Tu però hai sempre una tua naturalezza, c’è sempre un fluido che gira quando parli, come una speciale capacità di entrare in empatia.

E’ vero, sembra così

Tornando al non essere fisionomista, mi ha sempre affascinato questo tuo “difetto” perché immaginavo ti aiutasse a guardare lentamente, a tirare fuori l’essenza delle persone, la loro “forma”, cosa impossibile nella visione veloce che cataloga e scarta, passa oltre.

Inizia a piacermi questa intervista. Non ho mai avuto la fortuna di pensare questo ma, mi fai venire in mente la frase di una persona a me molto cara che, poco prima di morire mi scrisse in una lettera: “Tu sei una persona che ruba l’anima, ma gli altri non se ne accorgono” e anch’io non me ne accorgo. Su questo ho dovuto farmi un bell’esame di coscienza.

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© Giuliana Traverso, Edoardo Sanguineti da“Il Gesto discreto” 1998

 Potresti spiegare il tuo modo di guardare?

Me l’hanno spiegato, nel cervello avviene una registrazione di immagini che vengono archiviate e poi richiamate all’occorrenza. Per esempio quando si pensa, Piazza De Ferrrari, a Genova, tutti hanno immediatamente in mente come è piazza De Ferrari. A me non succede proprio così, ma provo a spiegarmi, a un certo punto è come se avessi troppo caldo e dovessi liberarmi di qualcosa. Il mio cervello si libera e si muove più agevolmente. A quel punto inizio ad aiutarmi guardando la gestualità delle persone, la posizione della testa, come sono messe le mani e vedo chi mi sta di fronte come un disegno…trovo la forma.

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 © Giuliana Traverso, Emanuele Luzzati da“Il Gesto discreto” 1998

Come ha iniziato a vedere la forma?

Dato che mi sei simpatica, te lo racconto. Molti anni fa accompagnavo il mio ex marito agli incontri di un noto circolo fotografico genovese. A quel tempo gli uomini erano più cavalieri, con me lo sono anche oggi, forse perché sono anziana (sorride), mi davano l’unica sedia disponibile ed io mi sedevo e li guardavo. Si mettevano intorno e iniziavano a passarsi le foto, però, sopra la mia testa senza mai mostrarmele, ero una donna. Erano gli anni in cui si iniziava a fare un po’ di cultura fotografica. Ho dovuto così guardare le foto sempre alla rovescia, vedevo solo le linee e la luce che le attraversava. All’inizio mi annoiavo poi ho capito che era una cosa meravigliosa, perché dentro di te capisci immediatamente quando una foto è squilibrata, ed ecco perché ho un grande senso dello spazio, che ho sempre cercato di insegnare alle mie allieve. Non è immediato ma a poco poco capiscono che quel modo di porgersi e di occupare lo spazio contiene il ritratto. Credo di aver imparato tanto da quel modo di guardare. Ricordo che un giorno stava girando una foto di Mario Giacomelli, allora sconosciuto “…sfoca tutto, è sgranata, è bruciata, non sa stampare, non sa usare il prussiato…”. E’ stata quella l’occasione in cui ho finalmente reagito, mi sono alzata, anzi sono salita sulla sedia e “Adesso basta. Questa è la foto più bella che sia mai arrivata qui dentro” e ho pensato “ora me la faranno vedere dal dritto” no! Se la sono passata e guardandomi con sfida l’hanno scartata! Così è andata. Lo stesso è successo con Mario Lasalandra, con quei fotografi che mettevano un po’ di anima e che facevano diventare la loro foto, personale.

Il tuo racconto mi suggerisce l’idea che questo tuo guardare dalle retrovie, di sbieco, con la coda dell’occhio, a rovescio, abbia sviluppato in te l’acutezza dello sguardo dovuta allo sforzo di immaginare e un irrimediabile amore per la fotografia.

 Mi piace questa idea, è possibile

Oggi siamo lontani dal prussiato e dalla fotografia a prevalenza maschile e la tua scuola ha contribuito parecchio.

Oggi sono cambiate un po’ di cose. Quando ho aperto la scuola, ho deciso di farla per sole donne perché era il mondo che conoscevo meglio. Le donne mostravano una maggiore capacità di trovare se stesse, di raccontare quel che succedeva dentro, insomma di guardarsi dentro. La loro fotografia rispecchiava la loro interiorità. La loro testa cavalcava più velocemente rispetto agli uomini. A quei tempi, stiamo parlando di circa cinquanta anni fa, erano poche le donne che parlavano di fotografia con gli uomini e quindi c’era poco scambio in questo senso. Certamente la sensibilità di mogli, fidanzate, compagne ha influenzato molti fotografi. Ricordo che un bravo fotografo già molto conosciuto, Francesco Radino, aveva tentato di insegnare la fotografia alla moglie, Cristina Omenetto, senza mai riuscirci e mi aveva chiesto se potevo provarci io. Lei venne, un po’ scettica, e fu un’autentica rivelazione. E’ diventata una grande fotoreporter.

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 © Giuliana Traverso, “Fantasmi e Vivi”,1988

 Vorresti parlare dell’aspetto terapeutico del tuo insegnamento?

Mi piace questa domanda. Una sera ricevo una telefonata, era il Prof. Crepet. “…Sa io sono ancora giovane, ho già curato molta gente ma ho scoperto che molte mie pazienti le ha guarite lei…”. Voleva invitarmi a lavorare con lui. Ho rifiutato. Le allieve che vengono da me, non si sentono malate, e non è un cambio che voglio fare. Non mi parlano dei loro problemi, solo a volte. Io capisco se li hanno dalle loro foto.

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© Giuliana Traverso, “Fantasmi e Vivi”,1988

 Empatia … mi viene in mente un episodio che mi ha davvero colpita. Più di un anno fa in galleria, da me, si inaugurava una mostra di una giovane autrice che aveva interpretato fotograficamente i suoi sogni e quelli di amici e conoscenti con risultati molto fantasiosi. In mezzo c’era anche il sogno del curatore, ma nessuno sapeva quale fosse e neppure c’erano indizi. Tu hai immediatamente puntato il dito sull’immagine giusta nello stupore generale. Non conoscevi profondamente quella persona e con lui avevi rapporti piuttosto formali. E’ un sentire il tuo che non ti tradisce mai.

E’ un sentire come dici tu, mi è battuto forte il cuore quando l’ho detto, ma chissà perché, per me è così facile, bisogna però che io non ci pensi, ecco perché non potevo lavorare con il Prof Crepet. Non l’ho mai ringraziato per questa proposta, anche se ne ho una profonda stima e so che è diventato molto importante.

Azzardo un’idea …in tutto questo mi pare di vedere una funzione sociale, intendo dire che qui non si tratta di fare fotografia che ci fa conoscere o interpretare il mondo ma di usare la fotografia per il suo aspetto benefico  e quando le persone riescono a comunicare anche la comunità, sta meglio

Certo. La scuola “Donna fotografa” l’ho inventata giorno dopo giorno, senza prendere appunti guardando sempre chi avevo davanti e modulando le lezioni. Insegnare educazione visiva anche a Milano, oltre che a Genova, mi ha aiutato molto perché a quei tempi Milano era molto più avanti.

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© Giuliana Traverso, “Fantasmi e Vivi”,1988

 Alle mie allieve, dedico quest’ albero che riconosco come uno dei miei ultimi autoritratti

“Voi siete le foglie, quelle che ravvivano l’anima e vivono nel vento ed io sono le radici che continuano a camminare…”.

Giuliana

Grazie Giuliana per questo regalo

© Spazio23 – fotografia contemporanea, febbraio 2015

 

http://www.giulianatraverso.com/

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